Sedici morti, assassinati in maniera raccapricciante dal cosiddetto "Mostro di Firenze". Quarant'anni fa, nel 1968, iniziava questa lunga scia di sangue che si sarebbe conclusa quasi un ventennio dopo, lasciando, oltre a otto coppie trucidate, un sacco di misteri e verità mai consolidate. Rifacciamo dunque il percorso di questo massacro, che per la sua macabra ritualità, ha tenuto col fiato sospeso un intera regione, la Toscana, e certamente tutta l'Italia di quegli anni.
IL PRIMO DELITTO.
In quella calda notte del 21 agosto 1968, un Alfa Romeo Giulietta è parcheggiata su una strada sterrata nelle vicinanze del cimitero di Signa, piccolo centro in provincia di Firenze. Al suo interno, il muratore siciliano ventinovenne Antonio Lo Bianco, sposato e padre di tre figli, e Barbara Locci, una casalinga di 32 anni di origini sarde, sposata con il manovale Stefano Mele, sardo pure lui. Sul sedile posteriore della vettura, dorme il figlio della donna e del Mele, Natalino di 6 anni. Lo Bianco e la Locci sono amanti. Nella solitudine che circonda la campagna, qualcuno nel buio osserva la coppia intenta nei preliminari amorosi, poi il silenzio è rotto da otto detonazioni che si susseguono in rapida successione. Quattro colpi a distanza ravvicinata per l'uomo e quattro per la donna che moriranno quasi subito. Il piccolo Natalino, illeso, si sveglia di soprassalto, poi due braccia lo tirano fuori dalla vettura. L'assassino a questo punto se lo carica sulle spalle, e canticchiando "La Tramontana" -canzone uscita dal festival di Sanremo l'anno precedente- lo lascerà a circa due chilometri di distanza davanti ad un casolare in via Vingone nel comune di Campi di Bisenzio. Sono le due di notte quando il padrone della fattoria viene svegliato da dei colpi alla porta: "Accompagnami a casa, perché c'è la 'mi mamma' e lo zio che sono morti in macchina" si sente dire dal bambino. Le indagini scattano poco dopo, e portano immediatamente al marito della donna assassinata, il quarantanovenne cagliaritano Stefano Mele, ipotizzando che sia lui l'autore del duplice omicidio. Sul luogo del delitto intanto, gli investigatori rinvengono otto bossoli di cartucce calibro 22 'Long Rifle' Winchester serie H, che sta ad indicare la lettera punzonata sul fondo dei bossoli. Ma ai primi riscontri sull'attendibilità degli indizi accusatori sul marito, si scopre che questi da sempre era succube di quella moglie "mangiatrice di uomini" e conosciuta in paese come "l'ape regina", dal momento che nel recente passato, già un altro amante era apparso all'orizzonte della donna e che questi, amico del Mele, fosse stato a lungo ospite in casa della coppia. Al processo, Stefano Mele, dichiarato da una perizia psichiatrica 'ritardato mentale' , dopo aver negato e poi ammesso di essere l'autore del delitto e aver tirato in ballo altre persone, con le attenuanti della "seminfermità di mente" verrà condannato a 16 anni di carcere . E la pistola? Il Mele dirà di averla gettata via dopo l'uccisione della moglie e dell'amante, ma l'arma non sarà mai più trovata dagli investigatori. E sarà proprio quella Beretta calibro 22 'Long Rifle' a seminare di morti le campagne toscane per i prossimi diciassette anni, in quella lunga e macabra sequenza attribuita al "Mostro di Firenze". [continua] (Gericus)
(foto: Antonio Lo Bianco e Barbara Locci)
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