sabato 10 agosto 2013

Vivere la vita di un altro...


Una vita più una vita non fanno due vite. Fanno un enigma. Se fosse un film, lo si potrebbe intitolare Una vita di troppo. Ma essendo la pura e semplice verità, nessun titolo può spiegare come si senta oggi, a 49 anni, il bambino che visse due volte, l'uomo venuto dal nulla. Insomma, Paul Fronczak (foto). Dei suoi 49 anni, 48 portano di diritto quel nome e quel cognome, però l'anno mancante è anonimo, un buco nero in una culla. Andò così. Il 27 aprile 1964, in una nursery di Chicago viene rapito un neonato. Pare che a sottrarlo sia stata un'infermiera. Anzi, una donna che s'è fatta passare per infermiera, con tanto di camice e cuffietta. Il dolore dei genitori non riesce a ucciderli. Li ferisce a morte, ma non li ammazza. Fanno bene a resistere, e si meritano l'happy end che va in scena quasi un anno dopo. A Newark, nel New Jersey, quelli dell'Fbi trovano un bimbo abbandonato. Nessuno lo reclama, da quelle parti, è un figlio di nessuno. Qualcuno ricorda il caso di Chicago: che sia proprio lui il «kidnapped baby Paul»? Mamma e papà del rapito, subito contattati, sentono un brivido di speranza correre lungo la schiena, una scossa che ridà loro le forze. E quando amorevolmente esaminano i tratti del volto del fagotto che attende di conoscere il proprio destino, e si soffermano sulla conformazione delle orecchie, esultano: «That's my baby!!!», urla la signora Dora. Una madre non può sbagliare, e la prova del Dna è ancora fantascienza, nel 1968...
In quel momento, inizia la seconda vita di quel bimbo. Ha trovato una famiglia, ha trovato una casa, ha trovato un futuro. E per i 48 anni seguenti metterà fra parentesi il proprio anno mancante. Diventa un bel ragazzino, poi un bel giovanotto, poi un bell'uomo. Si sposa e si trasferisce nel Nevada. Diventa papà, e il suo pargolo, memore di quanto ha passato, non lo perde di vista un attimo. Le sue orecchie sono sempre fatte in quel modo particolare che gli è valso una mamma, un papà e tutto il resto. Soltanto, i suoi capelli non sono più biondi e folti. E sotto i capelli brizzolati, un rovello rimosso chissà quante volte torna ad alzare la voce, a urlare più forte di quanto urlò mamma Dora quella volta, abbracciandolo e scoppiando a piangere...
Paul non può far finta di non sentire. Non può continuare a essere se stesso ma anche un altro, due persone in un corpo. Una vita più una vita non fanno due vite. Fanno un enigma che deve ottenere risposta. E se la sua mamma e il suo papà fossero soltanto putativi? Se putacaso... Adesso la prova del Dna non è più fantascienza: è scienza. Così Paul si sottopone alla prova della verità. Non può dire bugie, non vuole dirle. A parlare per lui sono i geni. E i geni dicono «no». Dicono che Dora e Chester non sono i suoi genitori. «Cari mamma e papà - li chiama ancora così, e non potrebbe non farlo -, so che questa notizia è difficile per voi, eppure io vi amo e sarò sempre vostro figlio. Ma voglio scoprire la verità sulla mia identità», ha scritto Paul all'indirizzo che sappiamo.
Quarantotto anni dopo, un altro brivido è corso lungo la schiena di Dora e Chester. Un brivido di orrore. Hanno perso un figlio. Per la seconda volta. Di solito la vita dà e toglie. A loro ha soltanto tolto: prima il vero Paul, poi, quasi mezzo secolo dopo, l'altro Paul.
«Chi è Paul Fronczak?» è il titolo del profilo Facebook dell'ex trovatello. Vale per lui e vale per l'altro «lui». Ovunque sia, sulla Terra o altrove, sarà sempre il bimbo di Dora e Chester. E il fratello di un tale che si è preso la sua vita. (Da Il Giornale)

sabato 6 luglio 2013

The lovely story of a man and his sick dog.


A single, beautiful photograpf of a man cradling his dog in Lake Superior to help ease the pup’s arthritis has pulled at the heartstrings of all those who have seen it, and now RadarOnLine.com has the real story behind the heart-breaking image that went viral. “I am so surprised at the reaction of all of this,John Unger of Bayfield, Wisconsin told RadarOnline.com in an exclusive interview in response to the outpouring of support for him and his loual canine companion.  The 49-year-old farm caretaker adopted his dog, Schoep, when he was just a puppy, but after a staggering 19 years together, the aging shepherd mix is suffering from arthritis and has trouble sleeping, so the inseparable pair head to nearby Lake Superior so he can be lulled to sleep by te water. “I knew the water relieved the pain, but didn’t know to what extent it was helping at first. It takes all the pressure off the joints  and he is just floating there and doesn’t have any body weight,” explained Unger. “He immediately just zones out and is asleep as soon as he puts his head against my chest. I hold him with my right arm and then I will splash water on him and massage his joints – his feet, his shoulders, and his hips if I can. I have had him out there for over an hour but it is usually about 20 minutes.” The extra mile that Unger goes to for Schoep may surprise some people, but the devoted dog owner told Radar that he owes his life to the pup who brought him back from the brink when he had dark thoughts of suicide.
After a break-up with my then fiancee, I was going through a really bad time. I went down to the break water in Milwaukee at the marina, which is made of up of big boulders,” he confessed. “I was thinking of ending my life, I had Schoep with me and we were down there quite a while. I decided it was time to do this, I was going to head dive into the rocks.”
But one last look at his adopted pet made John rethink his fatal plan.
When I was really at that moment to jump, he looked up at me with a look I’ve not seen since or before,” explained Unger. “It was a look of concern, like a human, his eyes were squinted and his brow was scrunchedoes when they try to think really hard. It was quite amazing.”
It snapped me back to realty and made me think, ‘I shouldn’t be doing this… Who was going to care for this dog if I do this?’
I had just rescued him a year before and I was not going to abandon him again by killing myself. He snapped me out of the frame of mind I was in.”
The brush with death brought John and Schoep even closer together than before. “Everything had new and more meaning for us in every day. I made the commitment when I rescued him that I was doing it for life and to take care of him and I’m sticking to it.”
The now-iconic photo of the inseparable pair was taken by close friend and photographer Hannah Stonehouse Hudson, owner of Stonehouse Photography. “I wanted to give him something to remember Schoep by after he has gone,” she explained to Radar, and she has been blown away by the response. “This is beyond anything that I imagined. I knew he had been taking him out to the lake and I was just going out as a friend as a favor.”
Stonehouse Hudson said she believes the secret to the picture’s universal appeal is its simplicity and the love that pours from it. “People can take whatever they needed from that photo and then and apply it their own lives,” she explained. “It goes with any feeling of love, it’s not just about dogs, it’s about a spouse someone has lost or a friend or a bad time they went through.”
As for Schoep, “He is doing great! I think he feels really good. He is not sick and he is not dying, he is just an old dog and has arthritis,” she said.
He’s still really active, we do three walks a day and we swim as much as we can,” Unger went on to say. “I take him to the berry farm and let him just be a dog when I can.”
The pair is heading for their fourth laser treatment on Tuesday to ease the pain in the elderly shepherd’s joints and donations have now been pouring in to help pay for his laser treatments to combat his arthritis. Prints can be bought at LakeSuperiorCards.com, and a portion of the proceeds will go towards vet bills. 

(By Debbie Emery) Radar Reporter


"Perché vuoi fare la guerra all'America?"


Nell'autunno 1982 una bambina di 10 anni scrive al leader sovietico che le risponde invitandola in Urrs. Il 7 luglio 1983 Samantha Smith (foto) inizia un viaggio che la farà diventare la più giovane e popolare pacifista, impegnata in continui viaggi intorno al mondo.

Spaventata dall'idea che tra Usa e Urss potesse scoppiare una guerra nucleare scrive una lettera a Jurij Andropov, appena eletto segretario generale del Pcus, scongiurandolo di non attaccare l'America. Samantha Reed Smith, dieci anni, è solo una dei tanti americani, soprattutto bambini e adolescenti, che inviano missive al leader comunista per chiedergli di impegnarsi per la pace. Una foglio di carta destinato ad affogare tra migliaia, se non milioni, di altre lettere. Ma il caso volle che Andropov risponda proprio a lei. «Cara Samantha, non ho nessuna intenzione di fare la guerra al tuo Paese, noi russi siamo un popolo pacifico, se non ci credi viene a trovarci». Invito prontamente accolto e il 7 luglio del 1983 inizia il viaggio della bambina verso l'Impero del Male. L'evento ha una copertura mediatica immensa, Samantha diventa una star mondiale, subito impegnata in viaggi intorno al mondo. Una popolarità che le sarà però fatale. Al rientro di uno dei suoi viaggi il suo aereo cadrà al suolo. Ponendo fine, a soli 13 anni, alla luminosa e breve carriere della più giovane pacifista del mondo. Un'avventura meravigliosa iniziata nel più banale dei modi nell'autunno del 1982 a Manchester nel Maine. Samantha è nel salotto di casa insieme a mamma, Jane, assistente sociale, forse è il 22 novembre perché quel giorno usciva Time con il faccione di Andropov, nominato appena dieci giorni prima segretario generale del partito comunista. È un brutto momento per le relazioni Est Ovest, l'Urss è impegnata da tre anni nella guerra in Afghanistan, e l'elezione di Andropov, ex ambasciatore a Bupdapest durante la rivolta d'Ungheria ed ex capo del Kgb, non appare un segnale distensivo. In quei giorni, giusto per infondere un po' di ottimismo ai telespettatori americani, il canale televisivo Abc trasmette «The Day After - Il giorno dopo» su una futuribile guerra atomica tra le due superpotenze. Basta e avanza per spaventare una bambina di 10 anni che, vedendo appunto quella foto sul popolare settimanale, chiede alla madre «Se la gente ha così tanta paura di lui, perché nessuno gli scrive una lettera per chiedergli se vuole o no una guerra?» ottenendo come risposta un sintetico invito: «Perché non tu?». Non era del resto la prima volta che la piccola scriveva a un grande della terra: cinque anni prima aveva inviato una lettera alla Regina Elisabetta II d'Inghilterra, per dirle che le piaceva molto. Perché dunque non anche ad Andropov? Detto fatto. Poche righe sintetiche in cui, dopo avergli fatto i complimenti per il suo nuovo incarico, gli chiede se volesse scatenare una guerra nucleare e, nel caso non fosse vero, di impegnarsi per non farla scoppiare. Quindi conclude chiedendogli anche perché voglia conquistare il mondo e l'America in particolare. La cosa sembrò finire lì, ma nell'aprile dell'83 un giornalista, corrispondente americano da Mosca, le telefonò dicendo di aver letto la sua lettera sulla Pravda. Il tempo di realizzare cosa stesse succedendo e arriva la risposta di Andropov. «Non è vero che vogliamo la guerra o conquistare il tuo Paese - scrive in sostanza il leader sovietico - siamo un popolo pacifico e se non ci credi viene a trovarci. Non ora perché fa freddo, ma appena arriva l'estate». Così, presi i contatti, ottenuti visti e permessi, il 7 luglio la piccola Samantha prende un volo per Mosca con mamma e papà Arthur, docente di letteratura e scrittura creativa presso l'Università del Maine ad Augusta. Visitò Mosca e Leningrado per venire poi ospitata ad Artek, il principale campo dei «Pionieri», l'omologo sovietico dei boy scout, in Crimea. E per non farla sentire isolata, il Governo russo scegle ragazzi che parlano bene l'inglese, tra questi Natasha Kashirina di Leningrado con cui rimase poi in contatto fino alla morte. Non incontra però il su anfitrione: Andropov è già molto malato (sarebbe morto l'anno dopo) e si limita a chiamarla al telefono. Il soggiorno di Samantha e dei genitori è un trionfo, soprattutto per la propaganda sovietica. Parlando ad una conferenza stampa a Mosca, la ragazzina Smith dichiara che i russi sono «proprio come noi». Un affetto ricambiato visto che dopo la morte della ragazzina l'Unione Sovietica le dedica un francobollo, un diamante, una varietà di tulipani e di dalie, un vascello. A Mosca viene addirittura scoperto un monumento per ricordarla e, quando l'astronoma sovietica Chernykh scoprì l'asteroide 3147 ottiene dall'Unione Astronomica Internazionale di darle il nome Samantha.
Il suo rientro in patria non ha minore clamore, anche se non mancano le critiche perché in tal modo gli «orchi sovietici» vengono in qualche modo umanizzati. Samantha diventa un'attivista pacifista, ospitata nel 1984 in uno speciale sulla politica per bambini voluto dalla Disney, intervista candidati alle presidenziali del 1984 come George McGovern e Jesse Jackson. Visita il Giappone con sua madre, dove incontra il primo ministro Yasuhiro Nakasone e interviene al Simposio Internazionale della Gioventù tenutosi a Kobe. Nel suo discorso suggerisce ai leader sovietici e americani di scambiarsi le figlie per due settimane all'anno, perché così «non desidererebbero sganciare una bomba sul Paese che ospita la propria figlia». Scrive un libro intitolato «Journey to the Soviet Union» (Viaggio in Unione Sovietica) e intraprende persino la carriere di attrice, recitando con Robert Wagner nella serie televisiva «Lime Street». La sua breve esistenza si conclude il 25 agosto 1985 quando, al rientro nel Maine dalle riprese della serie Tv, il suo aereo si schiantò al suolo in fase di atterraggio. Nel disastro muoiono i due membri dell'equipaggio e i sei passeggeri, tra cui appunto Samantha e il padre. La sua prematura scomparsa desta un vasto cordoglio, soprattutto nel Maine dove era ormai una celebrità. Lo Stato decise di dedicarle il primo lunedì di giugno di ongi anno e una statua nei pressi del Maine State Museum di Augusta. Samantha è ritratta mentre libera una colomba, con ai piedi un cucciolo d'orso, animale simbolo sia del Maine che della Russia. Anche una scuola elementare dello stato di Washington e un dormitorio dell'Università del Maine ricordano l'adolescente La sua «carriera» dura solo due anni, ma la spontaneità con cui la percorre e gli incredibili successi ottenuti la faranno rimanere per sempre un caso unico nella storia del movimento pacifista internazionale. (Il Giornale)

lunedì 8 aprile 2013

Homeless man wins $50K in lotto


After living in a tent for nearly 20 years, you’d think you’d want a warm bed as soon as possible.
Not Dennis Mahurin (foto) though. He’s been homeless since 1978 and after buying a scratch-off ticket from a Circle K gas station in Bloomington, Ill., he didn’t really plan on becoming rich.
"I scratched it off right here in my tent,” Mahurin told CINewsNow. “I thought it was a thousand dollars. She said, 'Nope.' I said, 'Oh, I messed up didn't?' She said it was $50,000, and I almost fell over."
With $50,000 in hand, the 59-year-old says he doesn’t plan to change his lifestyle. Instead, he wants to give back.
"With all the other homeless people around here, I've made up my mind,” Mahurin said. “I'm gonna give them each $100."
He says he has eight friends in mind for the cash but expects some more friends to come around once they hear about his new prize.
He told CINewsNow he also plans to visit his son, see a dentist and put some of the cash away.
After taxes, Mahurin will end up with about $35,000 to spend as he wishes.
And, it seems like he’s pretty happy where he is.
I'm living in a tent, happy as can be in my nature."

sabato 30 marzo 2013

Addio a Enzo Jannacci.


È stata aperta questa mattina la camera ardente per Enzo Jannacci, (foto) scomparso ieri sera nella casa di cura Columbus di Milano. Il cantautore avrebbe compiuto 78 anni il prossimo 3 giugno. Nonostante la pioggia e le festività in tanti hanno deciso di dare personalmente l'ultimo saluto al "dottore" della musica.Il mondo della musica e della politica piange uno degli artisti simbolo del capoluogo lombardo. "Con la sua ironia e le sue canzoni ha raccontato la Milano più vera. Rimarrà nella storia della città", ha ricordato Giulaino Pisapia in un tweet, mentre Fabio Fazio lo ha definito "un genio: le sue parole che non riuscivano a star dietro ai suoi pensieri. La sua poesia ha inventato un mondo bellissimo". Roberto Maroni, poi, lo ha voluto salutare in milanese: "Riposa in pas, cunt i too scarp del tenis". "Quelli che... Adesso sanno l’effetto che fa. Buon viaggio", ha detto invece laconico Francesco Guccini, mentre i Nomadi hanno chiesto: "Salutaci le stelle...". A messaggi più sintetici come quello di Syria, che ha salutato Jannacci con un "ciao signor Enzo", si accompagnano tweet più personali come quello di Paola Turci: "Rimangono tutte le tue canzoni e un pezzo di strada fatta insieme". Ironico Frankie Hi Energy: "Ciao Enzo non ti scapicollare"; triste Luca Bizzarri: «Cristo come mi dispiace. Addio, signor pur talento". Tanti e accorati i messaggi di Dalia, figlia di Giorgio Gaber, con cui Jannacci formò una celebre coppia della canzone italiana: "Ciao Enzo, ti voglio bene". Il più commosso è Cochi Ponzoni, che con Jannacci ha lavorato: "Parlare di Enzo? È come parlare di un fratello, un fratello che è morto. Abbiamo vissuto talmente tante esperienze insieme, viaggi, cose della vita, lavoro, che per me era uno di famiglia. Certo Enzo era un grande artista, un poeta, un uomo eccezionale. Uno che ha compiuto nella sua vita tante di quelle cose che ce ne vorrebbero tre di vite, jazzista, compositore, attore, era pure diplomato in composizione all’accademia. E poi medico, e che medico! Uno che ha avuto esperienza con gente dal calibro di Barnard e con Azzolina... ma per me e Renato è stato soprattutto un grande amico, un fratello maggiore uno che ci ha tanto aiutato". Il cabarettista ha raccontato anche l'incontro con il cantautore: "Ci siamo conosciuti nel ’64, lui era già famoso, aveva già avuto il successo di Scarp de tennis, io e Renato eravamo dei ragazzini. Noi facevamo cabaret al Cab 64 di Milano, lui è venuto a vederci, gli siamo piaciuti e così abbiamo cominciato a frequentarci. Lui ci ha aiutato, noi facevamo i testi e lui spesso li musicava. Ad esempio La vita l’è bela è stata musicata da lui...".
(Il Giornale online)

mercoledì 27 marzo 2013

L'anello perduto e la favola del barbone del Kansas


Il senzatetto restituisce il gioiello prezioso. E riguadagna la vita e la famiglia. Un anello di platino con diamante, il bicchiere di plastica di un mendicante, un gesto di disattenzione, uno di buon cuore. E, in pochi giorni, una vita che esce dai sacchi di rifiuti in cui - parole del protagonista - era finita e si trasforma in un film da far invidia a Frank Capra.

Sono passati meno di due mesi dal giorno in cui, era l'8 febbraio, una giovane signora bionda di Kansas City, estraendo dal portafogli delle monete per un senzatetto, fa scivolare inavvertitamente nel raccoglitore delle offerte un anello di fidanzamento. A fine giornata il 55enne barbone Billy Ray Harris (foto) lo trova e lo porta subito da un gioielliere a farlo valutare. L'istinto è quello di ricavarne un po' di soldi. Quattromila dollari, dice il negoziante. Troppi per Billy. Ci ripensa: quell'anello merita di essere restituito al legittimo proprietario. E così quando la signora Sarah Darling un paio di giorni dopo torna a cercarlo, incredula, lo ritrova.

Col marito Bill Krejci pensa allora di contattare la tv locale per condividere quella storia che per lei ha del «miracoloso», e infatti subito si diffonde sui media nazionali e internazionali. Dinanzi alle decine di persone che si fanno vive offrendosi di aiutare Billy, la coppia decide di mettere su un sito web cui indirizzare le donazioni. La raccolta si chiude tra 50 giorni, e ieri sera il contatore segnava già oltre 188 mila dollari. Ottomiladuecentocinquantadue offerte, la maggior parte delle quali in piccoli contributi da 50, 20 e dieci dollari (la media è 22,8), tutte accompagnate da messaggi di affetto e gratitudine per le onde di speranza che una piccola grande buona azione è stata in grado di generare. «All'inizio speravo di arrivare a 4.000 - racconta Sarah - che poi era la cifra offertagli per il gioiello».
E invece Billy adesso ha molto di più: una casa, un lavoretto come «roadie» (la persona che viaggia con una band e ne trasporta e sistema gli strumenti), e un nuovo amico, Bill, col quale esce a bersi una birra, a guardare le partite, o un film. Soprattutto, ha di nuovo una famiglia.
Dopo sedici anni trascorsi da fantasma le sorelle e il fratello temevano fosse morto. Almeno questa, hanno raccontato, era la voce che si era sparsa in Texas, dove alcuni degli Harris vivono, a ottocento chilometri da Kansas City. Poi la sorella più piccola, Robin, ha visto una foto sul giornale e non ha avuto dubbi: «L'ho riconosciuto subito, e automaticamente ho iniziato a urlare». Di lì sono cominciate le email, le telefonate, i pianti e le risate. E i progetti per una grande rimpatriata, quest'estate.
Anticipata - e come poteva essere altrimenti - dalla tv. Domenica Billy e i Krejci erano al «Today show», storico programma mattutino della Nbc, quando la presentatrice ha annunciato una sorpresa e ha fatto entrare Robin, Edwin, Elsie e Nellie: i cinque fratelli Harris si sono ritrovati di nuovo tutti insieme. Abbracci, lacrime, sorrisi, ma anche l'imbarazzo del tempo passato. Fuori onda ci sarà tempo per ritrovarsi e raccontarsi cosa è andato storto. E di certo rimettere insieme i fili sarà più difficile, a telecamere spente. Ma intanto grazie al gesto ispirato, come ha raccontato, dal nonno reverendo che l'ha cresciuto, Billy si è guadagnato un'altra chance e si gode la gita a New York, dove sono gli studi della Nbc. Ieri Bill ha pubblicato sul sito della raccolta fondi una foto di Billy avvolto nella bandiera americana, abbracciato a due artisti di strada con le maschere di Topolino e della Statua della libertà. «Ditemi se non ci sono più di 50 sottotesti in questa immagine», ha scritto. E come dargli torto? (Corriere della Sera online)

 

martedì 26 marzo 2013

In Italy, double jeopardy for Amanda Knox?


Amanda Knox, the American student who was accused of killing a British student she shared an apartment with, was not in court on Monday, as prosecutors made their case for a retrial in front of the Italian Supreme Court, and is “confident” in the Italian judicial system. Knox spent four years in an Italian jail and was found guilty of murdering another college student while traveling abroad in Italy in 2009. Knox’s sentence was later overturned, and prosecutors are appealing that decision, arguing for a retrial, reports the Associated Press.
Knox and her boyfriend at the time, Italian native Raffaele Sollecito, were acquitted of the 2007 death of 21-year-old British student Meredith Kercher in 2011.
The prosecutors appealed, and the case is being heard by the Italian Supreme Court on Monday; a verdict is expected shortly thereafter. Giulia Bongiorno, Sollecito’s attorney, said the case against his client and Knox has been “an absurd judicial process,” notes AP. The appellate court, which overturned the conviction, said that the case lacked evidence against Knox and Sollecito due to the murder weapon not being found and faulty DNA testing, notes AP. Knox, following the acquittal, returned to Seattle and is not in Italy for the appeal, but she may not need to return if the court orders a retrial.
Another individual, Rudy Guede, described as an “Ivorian drifter” was later convicted of the murder of Kercher, reports CNN. But the prosecution believes that Guede did not act alone.
“We are still convinced that they are the co-authors of Meredith's homicide,” prosecutor Giovanni Galati said, according to CNN. Sollecito and Knox were hoping to resume their lives; Knox is currently enrolled at the University of Washington in Seattle and has written a memoir, “Waiting to be Heard,” that will be published on April 30.
Knox is also appealing her own conviction, a slander charge, in a separate trial, notes AP. Knox said a local bar owner was responsible for the death of Kercher, which led to his arrest and detention for two weeks before being let go by police.
(foto: Amanda Knox e Raffaele Sollecito)

venerdì 22 marzo 2013

Massacrò Tommy: il suo assassino esce di galera


Lo strazio di una madre. L'indignazione di tutti noi. C'è un bambino dagli occhi sgranati su un futuro che l'ha tradito, si chiamava Tommy, (foto) la cui morte orribile è una ferita che sanguina ancora. Stimmate dell'Italia contemporanea. Sono passati solo sette anni da quel 2 marzo 2006 e dall'azione scellerata compiuta da un terzetto criminale: Mario Alessi, la convivente Antonella Conserva, Salvatore Raimondi. Quando Alessi chiese temerariamente alla mamma di Tommy, la signora Paola, il perdono, lei gli rispose duramente: «Non so se lo perdonerò mai, voglio solo che sconti la sua pena». La pena, l'ergastolo, Alessi la sta scontando ma si sa che in Italia ci sono molti modi per affrontare il carcere. Ora si scopre che nei prossimi mesi Alessi potrebbe iniziare una nuova vita come giardiniere. Fuori di giorno, in carcere, a Prato, di notte. Sì, ha frequentato un corso e ora è pronto per voltare pagina. Un'immagine bucolica si sovrappone al sangue e all'orrore. Anzi, prova a spingerli via, fra le brume della memoria. Ci spiace. Non siamo pronti. Noi e nemmeno la madre che urla rabbia e dolore: «È ancora un uomo pericoloso». Dicono che in cella Alessi si comporti in modo irreprensibile. Dicono. Lei, con il sesto senso di una madre, ripete: «Ha stuprato una donna e ha ucciso il mio bambino. La prossima volta, se tornerà libero, che cosa farà? Quell'uomo fuori dal carcere può fare solo male». Per la cronaca, se la giustizia avesse fatto subito il suo corso, Alessi non sarebbe entrato nel Guinness della cronaca nera. Era sotto processo per violenza sessuale, ma in attesa del dibattimento era libero. E così ebbe il tempo di congegnare la sventurata spedizione a casa Onofri per portare via e massacrare lo scricciolo che aveva solo 18 mesi.
Poi ebbe la faccia di bronzo di andare in tv, piangere lacrime fasulle e rivoltanti e darsi un contegno zuccheroso, prima di essere finalmente smascherato come uno degli autori, se non il principale, di questo abominio. La giustizia che è arrivata troppo tardi, rischia di andarsene troppo presto. Non si è mai capito come andò effettivamente quel giorno nelle campagne di Casalbaroncolo (Parma).
Alessi ha sempre ripetuto: «L'ho rapito, ma non l'ho ucciso. È stato Raimondi». Rimpalli sul cadavere di un bambino, scarichi reciproci di responsabilità e nessun pentimento all'orizzonte. Lui si è preso l'ergastolo, i complici, fra processi bis e riti abbreviati, hanno limitato i danni. Pare impossibile ma Antonella Conserva se l'è cavata con 24 anni, Raimondi addirittura con 20. Nel Paese che ha appena liberato Pietro Maso e Ruggero Jucker è fin troppo facile prevedere cosa accadrà già domani. E lui, Alessi, poteva rimanere indietro, intrappolato dietro le sbarre? Ricomincia così, o almeno dovrebbe, da giardiniere. Per carità, sappiamo bene che il lavoro esterno non è un permesso premio e nemmeno la semilibertà. Sappiamo anche che il lavoro è la strada maestra per la rieducazione della persona e sappiamo perfino che la fatica può servire anche per risarcire i parenti delle vittime, ammesso che si possa risarcire quel che non ha prezzo.
Sappiamo ma non comprendiamo. Non ora, almeno. Non ora che la madre urla e si dispera. Non in un Paese in cui la giustizia è un colabrodo e sembra che più alto è il crimine commesso più elevate sono le chance di recupero, sconto sulla pena e tutto il resto. Non con un ceffo che ha gestito il dolore come un coccodrillo e si è reso protagonista in cella di un altro episodio dubbio che sa tanto di furbata: Alessi rivelò all'universo mondo le presunte confidenze di Rudy Guede, uno dei killer di Meredith, altra pagina dell'album nero italiano. Guede gli avrebbe raccontato che Raffaele Sollecito e Amanda Knox erano innocenti. Guede l'ha smentito e la storia è finita lì, mentre lui correva a passi rapidi verso il ritorno in società. Come fosse stato assente giustificato. Ogni cosa a suo tempo. Evitateci lo show fra le rose e i cespugli. Se proprio deve, continui a potare le piante del carcere.
(Il Giornale)



mercoledì 20 marzo 2013

Dopo 3 anni e 600 chilometri Rocky torna a casa


Non è un film, ma potrebbe esserlo stato, e il fatto che sia una storia vera, fa venire le lacrime agli occhi. Rocky (foto)  un pastore tedesco di 5 anni, è tornato a casa tre anni dopo che era stato rubato da alcuni rom a Salerno. Ha risalito la penisola, 600 chilometri dal Cilento alla Toscana, fino a Pisa, lì ha poi avuto uno strappo fino a Carrara, dove vive il suo padrone. E così è tornato a casa, dopo tre anni in cui ormai si erano perse tutte le speranze. Già, è una storia vera. Incredibile e commovente, come solo le storie vere sanno essere. Rocky era stato portato ancora cucciolo in un canile di Carrara, dove era stato poi adottato da un siriano, Ibrahim Fwal, che da anni vive nella città toscana, perfettamente integrato. I due formano subito una coppia affiatata. Come tutti i trovatelli, Rocky si dimostra subito molto affettuoso e si affeziona rapidamente al padrone, che lo tratta ormai quasi come un figlio. Facevano tutto assieme, andavano anche al mare. Ed è lì che Rocky, a due anni, scomparirà. "Quando sono tornato sulla spiaggia, alcune persone mi hanno riferito di aver visto degli zingari portarselo via. Da allora non mi sono dato pace: l’ho cercato dovunque, ho girato tutti i canili della zona, ho fatto mettere annunci sul giornale, ma di Rocky nessuna traccia". Non serviranno a nulla i cartelli e le ricerche. Rocky scompare. E' un fenomeno in crescita, quello del furto di cani da parte dei Rom. Spesso li prendono cuccioli, per usarli come ulteriore elemento di richiesta di elemosine. Non è un film, ma potrebbe esserlo stato, e il fatto che sia una storia vera, fa venire le lacrime agli occhi. Rocky, un pastore tedesco di 5 anni, è tornato a casa tre anni dopo che era stato rubato da alcuni Rom a Salerno. Ha risalito la penisola, 600 chilometri dal Cilento alla Toscana, fino a Pisa, lì ha poi avuto uno strappo fino a Carrara, dove vive il suo padrone. E così è tornato a casa, dopo tre anni in cui ormai si erano perse tutte le speranze. Già, è una storia vera. Incredibile e commovente, come solo le storie vere sanno essere.Cosa gli sia accaduto, in questi tre anni, solo il cane può saperlo. Forse è fuggito dai Rom, forse loro lo hanno abbandonato. Qualche tempo dopo, viene adottato da una famiglia di Salerno. Ma Rocky è irrequieto. Prova a fuggire un paio di volte e la sua nuova famiglia, preoccupata, gli mette un collare con tanto di indirizzo e numero di telefono, in modo da poterlo più facilmente trovare in caso di nuova fuga. Ma Rocky ci prova spesso. L'ultima volta, quella decisiva, due mesi fa. E' quella "buona". Rocky punta al Nord. Salerno dista da Carrara 700 chilometri e Rocky ha lo svantaggio di non aver studiato geografia. Ma il suo istinto ed il suo cuore sanno dove puntare. In neanche sessanta giorni, batte seicento chilometri, ammesso che abbia compiuto un tragitto rettilineo e senza contare le deviazioni lungo il persorso, che sicuramente ci sono state. E le pause per nutrirsi, per riposarsi.Riesce finalmente ad arrivare a Pisa. Mancano ancora cento chilometri buoni a Carrara. Ha i polpastrelli ridotti ad un sottile strato di pelle sanguinante. E' malnutrito, stanco. A Pisa, il suo viaggio rischia di interrompersi. Qualcuno lo ha notato, infatti. Ed ha notato il suo collare. Leggono l'indirizzo, Salerno, ed il numero di telefono. Chiamano in Campania. "Sì, è il nostro cane". Rocky "rischia" di tornare alla sua seconda famiglia, vede vanificare il suo immane sforzo. Poi, la svolta. Qualcuno, nota un tatuaggio strano di Rocky. E' un indizio. Risale a quando era un cucciolo. E lo abbina ad un siriano di Carrara, che viene supposto per la prima volta sia il suo legittimo proprietario. Lo rintracciano, lui è incredulo. Gli ultimi cento chilometri, da Pisa a Carrara, li fa in auto. Seicento chilometri su settecento possono bastare come prova d'amore per Ibrahim. Ci può stare uno strappo.E' raggiante il suo padrone: «Non ci credevo, non ci potevo credere! Quando me l’hanno portato a casa era in macchina e da dentro ha sentito la mia voce ed ha iniziato a fare il diavolo a quattro!» Rocky è tornato a casa. Tre anni e settecento chilometri dopo, la sua storia ha avuto un lieto fine. Ed ha ricordato a noi uomini che l'amore è più forte di qualsiasi distanza geografica, di qualunque barriera, di qualunque altra cosa. Ci ha ricordato, insomma, il nostro lato umano. Quello che ci distingue dalle cose inanimate. Insomma, ci ha ricordato quel sentimento per cui vale la pena vivere. 
(Da “La Nazione” di Carrara)

sabato 19 gennaio 2013

Armstrong: "Senza doping non vinci".

Lance Armstrong (foto) vuole tornare a gareggiare ed è questo uno dei motivi che lo hanno indotto ad ammettere il doping. «Voglio tornare alle gare, la squalifica a vita è una condanna a morte», ha dichiarato il campione texano nella seconda parte dell'intervista a Oprah Winfrey, in cui si è anche commosso ricordando come il figlio Lucas lo difendesse dalle accuse di doping e ha definito le dimissioni dalla fondazione Livestrong come «il momento più umiliante» di questa vicenda. Si conferma anche nella seconda parte dell'intervista quella che è la strategia del ciclista texano che ha ammesso il doping fino al 2005 (periodo coperto da prescrizione), per tentare di evitare di danneggiare realmente se stesso e la sua fondazione Livestrong. All'atleta sono stati revocati praticamente tutti i titoli vinti dall'Uci (Unione ciclistica internazionale), lo scorso ottobre; ha aggiunto che essere stato costretto a lasciare la sua Fondazione Livestrong per la lotta al cancro è stato «un momento di grande umiltà». La fondazione era per Armstrong come un suo sesto figlio. «Non sono stato forzato, ma sentivo le pressioni. Era la cosa migliore per l'organizzazione, è stato il momento più basso» ha ricordato l'ex ciclista. «Stai affrontando i tuoi demoni?'»domanda di Oprah. «Assolutamente» è stata la risposta. La presentatrice ha chiesto poi se, a suo parere, l'uso di sostanze vietate abbia contribuito a farlo ammalare di cancro. «Non credo. Non sono un medico, nessun dottore mi ha detto questo» ha spiegato Armstrong. Un filmato di una deposizione del 2005 ha mostrato Lance mentre diceva, in una sorta di auto-profezia, che se fosse risultato positivo ai test antidoping avrebbe perso tutti i suoi contratti con la squadra e gli sponsor, ma soprattutto la fiducia della gente e di tutti i sopravvissuti al cancro. «L'importante per me non sono tanto i soldi» ma non perdere il supporto di centinaia di migliaia di persone. «È disgustoso. Non mi piace, non mi piace quel tizio» ha commentato l'ex campione, che alla domanda di Oprah: «Chi era quel tizio?» ha risposto. «Era un tipo che si sentiva invincibile, a cui era stato detto di essere invincibile e che credeva totalmente di esserlo. Ecco cos'ero. Quel tipo è ancora qui, non mentirò al pubblico dicendo "sono in terapia, mi sento meglio". C'è ancora. Deve essere eliminato attraverso un percorso». Armstrong ha elencato alcuni degli individui con i quali si dovrà scusare. «Cosa dici ai milioni di persone che ti hanno creduto?» la domanda della presentatrice. «Dico che capisco la loro rabbia. Mi avete sostenuto per tanto tempo e creduto e vi ho mentito. Me ne scuso e passerò tutto il tempo che occorre a porgere delle scuse». Molta gente crede che Lance abbia scelto di sottoporsi a quest'intervista per poter tornare allo sport. «Se mi chiedi se voglio di nuovo fare delle gare, la risposta è sì. Sono un combattente, amo le gare. Non mi aspetto che accadrà» ha però aggiunto Armstrong. «Non le gare ciclistiche: ci sono tante altre cose che vorrei fare, ma non posso con questa penalizzazione e punizione, come correre la maratona di Chicago quando avrò 50 anni. Mi piacerebbe, ma non posso» ha spiegato l'ex ciclista, bandito da qualsiasi manifestazione sportiva ufficiale. «Non posso mentirti, adorerei avere di nuovo il diritto di competere, ma non è questa la ragione della mia intervistà ha detto l'ex atleta, spiegando che tanti altri suoi colleghi sono stati puniti con qualche mese di sospensione per le stesse trasgressioni, mentre io ho avuto la pena di morte. Non sto dicendo che non è giusto, ma che è differente». 
(da Il Giornale)

giovedì 10 gennaio 2013

Klaus Kinski: Tra incesto e mito

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Si legge in Madame Bovary: mai maneggiare troppo un mito, alla fine un po' di oro resta sulle dita. Dentro la grande letteratura ci sono sempre lucide verità, che aiutano nella vita. Avvicinare eccessivamente un personaggio rischia di rivelarlo molto diverso, con un seguito di retroscena e di delusioni che può dissolvere nel nulla la gloriosa icona. Sono sempre i più intimi, i familiari e gli amici, ad osservare senza filtri, fino in fondo, al microscopio, la doppia versione dell'individuo. E le loro conclusioni possono risultare sconvolgenti. Certo non si può dire che il famoso Klaus Kinski, attore di grido dell'altro secolo, morto nel 1991, si portasse dietro una reputazione di pio e devoto. Compiaciuto nel suo ruolo maledetto, definito «psicopatico e schizofrenico» nelle cartelle cliniche di un ospedale berlinese pubblicizzate anni dopo la scomparsa, il grande pubblico l'ha sempre conosciuto quanto meno come eccentrico, stravagante, anticonformista, rissoso e piantagrane. Eppure, nonostante questa reputazione, nessuno riesce adesso ad apprendere tranquillamente quanto la sua secondogenita Pola, oggi sessantenne, sorella della più nota Nastassja, rivela al settimanale Stern, parlando del libro autobiografico di prossima pubblicazione. A tanti anni di distanza, ricordi e parole di figlia sanguinano come ferite aperte: «Mio padre mi ha stuprata da quando avevo cinque anni fino ai diciannove. Si è sempre infischiato di tutto, anche quando cercavo di difendermi. Gli era indifferente e si prendeva ciò che voleva». Che la donna si decida a raccontare solo adesso un simile passato, un simile privato, quando il padre dipinto come mostro e degenerato non ha più facoltà di difesa, può sembrare piuttosto sgradevole, se non addirittura inquinato da biechi interessi editoriali. Fosse così, è chiaro, la figlia sarebbe ben più mostruosa del genitore. Ma è Pola stessa a spiegare i motivi dello spaventoso outing: «Non potevo più sentirmi dire da tutti che grande tuo padre, che genio tuo padre. Da quando è morto, questa idolatria nei suoi confronti è diventata sempre peggio. La mia verità di figlia è molto diversa. Non sono mai riuscita a vederlo come grande attore. Ho vissuto tutta la vita nel terrore dei suoi scoppi d'ira. Ha abusato di qualunque persona, non ha mai rispettato nessuno». È certo che in casa Kinski non si giocasse al gioco dell'Oca e non si montasse il presepe a Natale. La stessa Nastassja, celebre attrice avviata prestissimo alla professione, spesso in ruoli decisamente scabrosi, non ha mai nascosto le nebbie della sua educazione domestica, raccontando di un padre «che era sempre assente, che non ha badato troppo a noi». A ogni modo è quel che resta di una memoria, di un mito, di un'icona raffinata e controversa a rendersi così desolante, così insopportabilmente odioso. Sono gli effetti collaterali del genio, si ama raccontare nel demi-monde delle arti. Ma è meglio andarci piano. Una cosa è il fascino irresistibile della simpatica canaglia, altra cosa è l'efferata morbosità che viene alla luce in queste storie torbidissime. Certo non si può dire sia la prima volta che un mito popolare, attore o cantante, pittore o campione, riveli in filigrana tutt'altra personalità. Non è la prima volta che a smascherare o a dissacrare il monumento sia chi lo conosce da vicinissimo, convivendoci a tempo pieno, toccando con mano le sue virtù e i suoi lati scuri. Quante volte abbiamo sentito figli raccontare di depressioni domestiche del padre comico, o di meschinità impensabili del padre pensatore. Questo però fa parte dell'umanità, dove grandezza e miserie di mescolano sempre inscindibilmente, permettendo di nascondere le meschinità soltanto a chi guardi da molto lontano e da molto in basso, con occhi adoranti e superficiali. Ma nella famiglia Kinski c'è dell'altro, c'è molto di più e di molto peggio. Un padre che abusa per anni della sua bambina è una bestia spregevole, e non c'è genialità capace di attenuare il crimine. Se Kinski attore era quel Kinski padre, solo una gelida pietra tombale può calare sulla sua arte. Altro non resta. (da Il Giornale)