sabato 19 gennaio 2013

Armstrong: "Senza doping non vinci".

Lance Armstrong (foto) vuole tornare a gareggiare ed è questo uno dei motivi che lo hanno indotto ad ammettere il doping. «Voglio tornare alle gare, la squalifica a vita è una condanna a morte», ha dichiarato il campione texano nella seconda parte dell'intervista a Oprah Winfrey, in cui si è anche commosso ricordando come il figlio Lucas lo difendesse dalle accuse di doping e ha definito le dimissioni dalla fondazione Livestrong come «il momento più umiliante» di questa vicenda. Si conferma anche nella seconda parte dell'intervista quella che è la strategia del ciclista texano che ha ammesso il doping fino al 2005 (periodo coperto da prescrizione), per tentare di evitare di danneggiare realmente se stesso e la sua fondazione Livestrong. All'atleta sono stati revocati praticamente tutti i titoli vinti dall'Uci (Unione ciclistica internazionale), lo scorso ottobre; ha aggiunto che essere stato costretto a lasciare la sua Fondazione Livestrong per la lotta al cancro è stato «un momento di grande umiltà». La fondazione era per Armstrong come un suo sesto figlio. «Non sono stato forzato, ma sentivo le pressioni. Era la cosa migliore per l'organizzazione, è stato il momento più basso» ha ricordato l'ex ciclista. «Stai affrontando i tuoi demoni?'»domanda di Oprah. «Assolutamente» è stata la risposta. La presentatrice ha chiesto poi se, a suo parere, l'uso di sostanze vietate abbia contribuito a farlo ammalare di cancro. «Non credo. Non sono un medico, nessun dottore mi ha detto questo» ha spiegato Armstrong. Un filmato di una deposizione del 2005 ha mostrato Lance mentre diceva, in una sorta di auto-profezia, che se fosse risultato positivo ai test antidoping avrebbe perso tutti i suoi contratti con la squadra e gli sponsor, ma soprattutto la fiducia della gente e di tutti i sopravvissuti al cancro. «L'importante per me non sono tanto i soldi» ma non perdere il supporto di centinaia di migliaia di persone. «È disgustoso. Non mi piace, non mi piace quel tizio» ha commentato l'ex campione, che alla domanda di Oprah: «Chi era quel tizio?» ha risposto. «Era un tipo che si sentiva invincibile, a cui era stato detto di essere invincibile e che credeva totalmente di esserlo. Ecco cos'ero. Quel tipo è ancora qui, non mentirò al pubblico dicendo "sono in terapia, mi sento meglio". C'è ancora. Deve essere eliminato attraverso un percorso». Armstrong ha elencato alcuni degli individui con i quali si dovrà scusare. «Cosa dici ai milioni di persone che ti hanno creduto?» la domanda della presentatrice. «Dico che capisco la loro rabbia. Mi avete sostenuto per tanto tempo e creduto e vi ho mentito. Me ne scuso e passerò tutto il tempo che occorre a porgere delle scuse». Molta gente crede che Lance abbia scelto di sottoporsi a quest'intervista per poter tornare allo sport. «Se mi chiedi se voglio di nuovo fare delle gare, la risposta è sì. Sono un combattente, amo le gare. Non mi aspetto che accadrà» ha però aggiunto Armstrong. «Non le gare ciclistiche: ci sono tante altre cose che vorrei fare, ma non posso con questa penalizzazione e punizione, come correre la maratona di Chicago quando avrò 50 anni. Mi piacerebbe, ma non posso» ha spiegato l'ex ciclista, bandito da qualsiasi manifestazione sportiva ufficiale. «Non posso mentirti, adorerei avere di nuovo il diritto di competere, ma non è questa la ragione della mia intervistà ha detto l'ex atleta, spiegando che tanti altri suoi colleghi sono stati puniti con qualche mese di sospensione per le stesse trasgressioni, mentre io ho avuto la pena di morte. Non sto dicendo che non è giusto, ma che è differente». 
(da Il Giornale)

giovedì 10 gennaio 2013

Klaus Kinski: Tra incesto e mito

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Si legge in Madame Bovary: mai maneggiare troppo un mito, alla fine un po' di oro resta sulle dita. Dentro la grande letteratura ci sono sempre lucide verità, che aiutano nella vita. Avvicinare eccessivamente un personaggio rischia di rivelarlo molto diverso, con un seguito di retroscena e di delusioni che può dissolvere nel nulla la gloriosa icona. Sono sempre i più intimi, i familiari e gli amici, ad osservare senza filtri, fino in fondo, al microscopio, la doppia versione dell'individuo. E le loro conclusioni possono risultare sconvolgenti. Certo non si può dire che il famoso Klaus Kinski, attore di grido dell'altro secolo, morto nel 1991, si portasse dietro una reputazione di pio e devoto. Compiaciuto nel suo ruolo maledetto, definito «psicopatico e schizofrenico» nelle cartelle cliniche di un ospedale berlinese pubblicizzate anni dopo la scomparsa, il grande pubblico l'ha sempre conosciuto quanto meno come eccentrico, stravagante, anticonformista, rissoso e piantagrane. Eppure, nonostante questa reputazione, nessuno riesce adesso ad apprendere tranquillamente quanto la sua secondogenita Pola, oggi sessantenne, sorella della più nota Nastassja, rivela al settimanale Stern, parlando del libro autobiografico di prossima pubblicazione. A tanti anni di distanza, ricordi e parole di figlia sanguinano come ferite aperte: «Mio padre mi ha stuprata da quando avevo cinque anni fino ai diciannove. Si è sempre infischiato di tutto, anche quando cercavo di difendermi. Gli era indifferente e si prendeva ciò che voleva». Che la donna si decida a raccontare solo adesso un simile passato, un simile privato, quando il padre dipinto come mostro e degenerato non ha più facoltà di difesa, può sembrare piuttosto sgradevole, se non addirittura inquinato da biechi interessi editoriali. Fosse così, è chiaro, la figlia sarebbe ben più mostruosa del genitore. Ma è Pola stessa a spiegare i motivi dello spaventoso outing: «Non potevo più sentirmi dire da tutti che grande tuo padre, che genio tuo padre. Da quando è morto, questa idolatria nei suoi confronti è diventata sempre peggio. La mia verità di figlia è molto diversa. Non sono mai riuscita a vederlo come grande attore. Ho vissuto tutta la vita nel terrore dei suoi scoppi d'ira. Ha abusato di qualunque persona, non ha mai rispettato nessuno». È certo che in casa Kinski non si giocasse al gioco dell'Oca e non si montasse il presepe a Natale. La stessa Nastassja, celebre attrice avviata prestissimo alla professione, spesso in ruoli decisamente scabrosi, non ha mai nascosto le nebbie della sua educazione domestica, raccontando di un padre «che era sempre assente, che non ha badato troppo a noi». A ogni modo è quel che resta di una memoria, di un mito, di un'icona raffinata e controversa a rendersi così desolante, così insopportabilmente odioso. Sono gli effetti collaterali del genio, si ama raccontare nel demi-monde delle arti. Ma è meglio andarci piano. Una cosa è il fascino irresistibile della simpatica canaglia, altra cosa è l'efferata morbosità che viene alla luce in queste storie torbidissime. Certo non si può dire sia la prima volta che un mito popolare, attore o cantante, pittore o campione, riveli in filigrana tutt'altra personalità. Non è la prima volta che a smascherare o a dissacrare il monumento sia chi lo conosce da vicinissimo, convivendoci a tempo pieno, toccando con mano le sue virtù e i suoi lati scuri. Quante volte abbiamo sentito figli raccontare di depressioni domestiche del padre comico, o di meschinità impensabili del padre pensatore. Questo però fa parte dell'umanità, dove grandezza e miserie di mescolano sempre inscindibilmente, permettendo di nascondere le meschinità soltanto a chi guardi da molto lontano e da molto in basso, con occhi adoranti e superficiali. Ma nella famiglia Kinski c'è dell'altro, c'è molto di più e di molto peggio. Un padre che abusa per anni della sua bambina è una bestia spregevole, e non c'è genialità capace di attenuare il crimine. Se Kinski attore era quel Kinski padre, solo una gelida pietra tombale può calare sulla sua arte. Altro non resta. (da Il Giornale)