lunedì 21 luglio 2008

THE SPORT MUST GO ON

Di Karl Unterkircher, (foto) 38 anni, alpinista ed esploratore italiano inghiottito da un crepaccio sul Nanga Parbat a 6.400 metri il 16 luglio scorso, non se ne parla più da giorni. E' morto e basta. Della sua tragedia, della scomparsa di un uomo, del dolore dei familiari, niente. Non interessa a nessuno. Ora si parla invece degli altri due alpinisti che erano in cordata con lui, Walter Nones e Simon Kehrer, che visto scomparire davanti ai lo occhi il capo cordata, dopo un attimo di sbigottimento hanno continuato la loro marcia per il record o per la salvezza. Si, va bene, in montagna la legge è questa, e la sua crudezza se vogliamo, la sperimentò sulla sua pelle anche Reinhold Messner, quando sulla via del ritorno dopo aver conquistato la vetta -sempre del Nanga Parbat- perse il fratello Guenther sparito anche lui in un altro crepaccio. Orbene, per uno che muore, due -giustamente- a cui pensare. Ma il punto è proprio questo, cioè esaltarsi eccessivamente sui due superstiti senza spendere una, dico una parola su chi ha patito una morte infame e crudele, come quella appunto di Unterkircher. Morire sembra quasi un "fatto dovuto", tanto che anche dai collegamenti telefonici coi due superstiti o da quelli televisivi con Agostino da Polenza, colui che ha coordinato i soccorsi dall'Italia, la morte del terzo alpinista non trova né spazio né dolore. Discorsi fatti da chi non conosce la montagna, si dirà, e non da uomini duri che la montagna invece la vivono, la sfidano e la temono. Davanti a questa legge quindi, io -che al massimo ho "scalato" i 296 gradini della Torre di Pisa-, mi inchino umilmente, consapevole di avere capito che oltre allo show, anche "the sport must go on"... (Gericus)

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