venerdì 3 aprile 2009

MORIRE A KABUL, MORIRE PER COSA?

C'è proprio da chiederselo: perché morire in Aghanistan? Perché andare a "portare" civiltà, democrazia e morire in nome di essa? Perché cercare di traghettare nel XXIesimo secolo un Paese che vuol vivere con metodi da Medioevo? E ancora: è poi giusto tutto questo? Dobbiamo per forza morire per portare al passo coi tempi popolazioni che invece vanno lasciate ai loro 'modus vivendi'? E' solo una riflessione che viene leggendo ciò che ha sancito pochi giorni fa il governo afgano, dove attraverso una nuova legge firmata dal suo presidente, Hamid Karzai si rende legale lo stupro della moglie. Si, avete capito bene, non è un refuso: E' legale stuprare la moglie. Donne come oggetti del piacere maschile, non più persone, ma "bambole" silenti e disponibili, e guai ad accusare un minimo mal di testa per sfuggire allo stupro. Del resto, a quelle latitudini le donne non è che fino ad oggi abbiano contato molto. Sono spettri sotto un burqa azzurro che le copre dalla testa ai piedi, sequestrate nell'abito che è come una prigione, poiché anche il piccolo spazio all'altezza degli occhi, non è altro che un intreccio di fili che ricordano le sbarre di una prigione. Vale la pena dunque restare in quella landa sperduta e polverosa o convenga invece fare le valige e tornare a casa? Sarà difficile mettersi contro questa nuova legge "del degrado", perché come dice la senatrice Hamaira Namati, "chiunque osi schierarsi contro è accusato di essere contro l'Islam". Il maresciallo Giovanni Pezzullo, morto il 13 febbraio 2008 è l'ultimo dei nostri 12 militari italiani caduti in Afghanistan per portare la pace. Morire a Kabul: ne è valsa la pena? (Gericus)

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