Lance Armstrong (foto) vuole tornare a gareggiare ed è questo uno dei motivi
che lo hanno indotto ad ammettere il doping. «Voglio tornare alle gare,
la squalifica a vita è una condanna a morte», ha dichiarato il campione
texano nella seconda parte dell'intervista a Oprah Winfrey, in cui si è
anche commosso ricordando come il figlio Lucas lo difendesse dalle
accuse di doping e ha definito le dimissioni dalla fondazione Livestrong
come «il momento più umiliante» di questa vicenda. Si conferma anche
nella seconda parte dell'intervista quella che è la strategia del
ciclista texano che ha ammesso il doping fino al 2005 (periodo coperto
da prescrizione), per tentare di evitare di danneggiare realmente se
stesso e la sua fondazione Livestrong. All'atleta sono stati revocati
praticamente tutti i titoli vinti dall'Uci (Unione ciclistica
internazionale), lo scorso ottobre; ha aggiunto che essere stato
costretto a lasciare la sua Fondazione Livestrong per la lotta al cancro
è stato «un momento di grande umiltà».
La fondazione era
per Armstrong come un suo sesto figlio. «Non sono stato forzato, ma
sentivo le pressioni. Era la cosa migliore per l'organizzazione, è stato
il momento più basso» ha ricordato l'ex ciclista. «Stai affrontando i
tuoi demoni?'»domanda di Oprah. «Assolutamente» è stata la risposta. La
presentatrice ha chiesto poi se, a suo parere, l'uso di sostanze vietate
abbia contribuito a farlo ammalare di cancro. «Non credo. Non sono un
medico, nessun dottore mi ha detto questo» ha spiegato Armstrong. Un
filmato di una deposizione del 2005 ha mostrato Lance mentre diceva, in
una sorta di auto-profezia, che se fosse risultato positivo ai test
antidoping avrebbe perso tutti i suoi contratti con la squadra e gli
sponsor, ma soprattutto la fiducia della gente e di tutti i
sopravvissuti al cancro. «L'importante per me non sono tanto i soldi» ma
non perdere il supporto di centinaia di migliaia di persone. «È
disgustoso. Non mi piace, non mi piace quel tizio» ha commentato l'ex
campione, che alla domanda di Oprah: «Chi era quel tizio?» ha risposto.
«Era un tipo che si sentiva invincibile, a cui era stato detto di essere
invincibile e che credeva totalmente di esserlo. Ecco cos'ero. Quel
tipo è ancora qui, non mentirò al pubblico dicendo "sono in terapia, mi
sento meglio". C'è ancora. Deve essere eliminato attraverso un
percorso». Armstrong ha elencato alcuni degli individui con i quali si
dovrà scusare. «Cosa dici ai milioni di persone che ti hanno creduto?»
la domanda della presentatrice. «Dico che capisco la loro rabbia. Mi
avete sostenuto per tanto tempo e creduto e vi ho mentito. Me ne scuso e
passerò tutto il tempo che occorre a porgere delle scuse». Molta gente
crede che Lance abbia scelto di sottoporsi a quest'intervista per poter
tornare allo sport. «Se mi chiedi se voglio di nuovo fare delle gare, la
risposta è sì. Sono un combattente, amo le gare. Non mi aspetto che
accadrà» ha però aggiunto Armstrong. «Non le gare ciclistiche: ci sono
tante altre cose che vorrei fare, ma non posso con questa penalizzazione
e punizione, come correre la maratona di Chicago quando avrò 50 anni.
Mi piacerebbe, ma non posso» ha spiegato l'ex ciclista, bandito da
qualsiasi manifestazione sportiva ufficiale. «Non posso mentirti,
adorerei avere di nuovo il diritto di competere, ma non è questa la
ragione della mia intervistà ha detto l'ex atleta, spiegando che tanti
altri suoi colleghi sono stati puniti con qualche mese di sospensione
per le stesse trasgressioni, mentre io ho avuto la pena di morte. Non
sto dicendo che non è giusto, ma che è differente».
(da Il Giornale)
sabato 19 gennaio 2013
giovedì 10 gennaio 2013
Klaus Kinski: Tra incesto e mito
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Si legge in Madame Bovary: mai
maneggiare troppo un mito, alla fine un po' di oro resta sulle dita.
Dentro la grande letteratura ci sono sempre lucide verità, che
aiutano nella vita. Avvicinare eccessivamente un personaggio rischia
di rivelarlo molto diverso, con un seguito di retroscena e di
delusioni che può dissolvere nel nulla la gloriosa icona. Sono
sempre i più intimi, i familiari e gli amici, ad osservare senza
filtri, fino in fondo, al microscopio, la doppia versione
dell'individuo. E le loro conclusioni possono risultare sconvolgenti.
Certo non si può dire che il famoso Klaus Kinski, attore di grido
dell'altro secolo, morto nel 1991, si portasse dietro una reputazione
di pio e devoto. Compiaciuto nel suo ruolo maledetto, definito
«psicopatico e schizofrenico» nelle cartelle cliniche di un
ospedale berlinese pubblicizzate anni dopo la scomparsa, il grande
pubblico l'ha sempre conosciuto quanto meno come eccentrico,
stravagante, anticonformista, rissoso e piantagrane. Eppure,
nonostante questa reputazione, nessuno riesce adesso ad apprendere
tranquillamente quanto la sua secondogenita Pola, oggi sessantenne,
sorella della più nota Nastassja, rivela al settimanale Stern,
parlando del libro autobiografico di prossima pubblicazione. A tanti
anni di distanza, ricordi e parole di figlia sanguinano come ferite
aperte: «Mio padre mi ha stuprata da quando avevo cinque anni fino
ai diciannove. Si è sempre infischiato di tutto, anche quando
cercavo di difendermi. Gli era indifferente e si prendeva ciò che
voleva». Che la donna si decida a raccontare solo adesso un simile
passato, un simile privato, quando il padre dipinto come mostro e
degenerato non ha più facoltà di difesa, può sembrare piuttosto
sgradevole, se non addirittura inquinato da biechi interessi
editoriali. Fosse così, è chiaro, la figlia sarebbe ben più
mostruosa del genitore. Ma è Pola stessa a spiegare i motivi dello
spaventoso outing: «Non potevo più sentirmi dire da tutti che
grande tuo padre, che genio tuo padre. Da quando è morto, questa
idolatria nei suoi confronti è diventata sempre peggio. La mia
verità di figlia è molto diversa. Non sono mai riuscita a vederlo
come grande attore. Ho vissuto tutta la vita nel terrore dei suoi
scoppi d'ira. Ha abusato di qualunque persona, non ha mai rispettato
nessuno». È certo che in casa Kinski non si giocasse al gioco
dell'Oca e non si montasse il presepe a Natale. La stessa Nastassja,
celebre attrice avviata prestissimo alla professione, spesso in ruoli
decisamente scabrosi, non ha mai nascosto le nebbie della sua
educazione domestica, raccontando di un padre «che era sempre
assente, che non ha badato troppo a noi». A ogni modo è quel che
resta di una memoria, di un mito, di un'icona raffinata e controversa
a rendersi così desolante, così insopportabilmente odioso. Sono gli
effetti collaterali del genio, si ama raccontare nel demi-monde delle
arti. Ma è meglio andarci piano. Una cosa è il fascino
irresistibile della simpatica canaglia, altra cosa è l'efferata
morbosità che viene alla luce in queste storie torbidissime. Certo
non si può dire sia la prima volta che un mito popolare, attore o
cantante, pittore o campione, riveli in filigrana tutt'altra
personalità. Non è la prima volta che a smascherare o a dissacrare
il monumento sia chi lo conosce da vicinissimo, convivendoci a tempo
pieno, toccando con mano le sue virtù e i suoi lati scuri. Quante
volte abbiamo sentito figli raccontare di depressioni domestiche del
padre comico, o di meschinità impensabili del padre pensatore.
Questo però fa parte dell'umanità, dove grandezza e miserie di
mescolano sempre inscindibilmente, permettendo di nascondere le
meschinità soltanto a chi guardi da molto lontano e da molto in
basso, con occhi adoranti e superficiali. Ma nella famiglia Kinski
c'è dell'altro, c'è molto di più e di molto peggio. Un padre che
abusa per anni della sua bambina è una bestia spregevole, e non c'è
genialità capace di attenuare il crimine. Se Kinski attore era quel
Kinski padre, solo una gelida pietra tombale può calare sulla sua
arte. Altro non resta. (da Il Giornale)
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