Altre due croci italiane sulla via dell'Afghanistan. Sono quelle del sergente Massimiliano Ramadù, 33 anni di Velletri, e del caporalmaggiore Luigi Pascazio, 25 anni della provincia di Bari. Con loro, anche due altri commilitoni sono rimasti feriti, la soldatessa Cristina Buonacucina originaria di Foligno, e il caporale Gianfranco Sciré, 28 anni di Casteldaccia, in provincia di Palermo. Il fatto è avvenuto questa mattina alle ore 9,15 locali, quando una colonna di oltre 400 militari composta anche da soldati di altre nazioni, è caduta in un agguato sulla strada che da Herat conduce a Bala Murghab, zona nel Nord Est del Paese. Nella colonna, formata da dieci mezzi blindati, quello italiano, un Lince di ultima generazione, si trovava in quarta posizione, ed è proprio quello che improvvisamente è stato colpito dall'esplosione. E si ripete il triste rito delle bandiere a mezz'asta, dei funerali di Stato e dei discorsi ridondanti di retorica. Con tutto l'onore e il rispetto che dobbiamo tributare a queste due nuove vittime, troppe le domande che nascono: morire in Afghanistan, morire perché? Quali interessi nazionali difendiamo in quella terra senza pace? Quali fiori porterà il sangue versato per quella guerra lontana che tanto ricorda un Vietnam di antica memoria? Serve ancora restare là a far da cuscinetto tra armate che si odiano per ragioni politiche e religiose? Guerre lontane che non ci appartengono se non per "doveri internazionali" di cooperazione militare, guerre da rifiutare, da rispedire al mittente. Che siano le popolazioni interessate a risolvere i loro problemi, padroni a casa loro di guerreggiare e di morir se lo desiderano. Morire per difendere i propri confini può essere un motivo, ma là in Afghanistan, morire perché?
(foto da sinistra: Massimiliano Ramadù e Luigi Pascazio)
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