Di Karl Unterkircher, (foto) 38 anni, alpinista ed esploratore italiano inghiottito da un crepaccio sul Nanga Parbat a 6.400 metri il 16 luglio scorso, non se ne parla più da giorni. E' morto e basta. Della sua tragedia, della scomparsa di un uomo, del dolore dei familiari, niente. Non interessa a nessuno. Ora si parla invece degli altri due alpinisti che erano in cordata con lui, Walter Nones e Simon Kehrer, che visto scomparire davanti ai lo occhi il capo cordata, dopo un attimo di sbigottimento hanno continuato la loro marcia per il record o per la salvezza. Si, va bene, in montagna la legge è questa, e la sua crudezza se vogliamo, la sperimentò sulla sua pelle anche Reinhold Messner, quando sulla via del ritorno dopo aver conquistato la vetta -sempre del Nanga Parbat- perse il fratello Guenther sparito anche lui in un altro crepaccio. Orbene, per uno che muore, due -giustamente- a cui pensare. Ma il punto è proprio questo, cioè esaltarsi eccessivamente sui due superstiti senza spendere una, dico una parola su chi ha patito una morte infame e crudele, come quella appunto di Unterkircher. Morire sembra quasi un "fatto dovuto", tanto che anche dai collegamenti telefonici coi due superstiti o da quelli televisivi con Agostino da Polenza, colui che ha coordinato i soccorsi dall'Italia, la morte del terzo alpinista non trova né spazio né dolore. Discorsi fatti da chi non conosce la montagna, si dirà, e non da uomini duri che la montagna invece la vivono, la sfidano e la temono. Davanti a questa legge quindi, io -che al massimo ho "scalato" i 296 gradini della Torre di Pisa-, mi inchino umilmente, consapevole di avere capito che oltre allo show, anche "the sport must go on"... (Gericus)
lunedì 21 luglio 2008
THE SPORT MUST GO ON
Di Karl Unterkircher, (foto) 38 anni, alpinista ed esploratore italiano inghiottito da un crepaccio sul Nanga Parbat a 6.400 metri il 16 luglio scorso, non se ne parla più da giorni. E' morto e basta. Della sua tragedia, della scomparsa di un uomo, del dolore dei familiari, niente. Non interessa a nessuno. Ora si parla invece degli altri due alpinisti che erano in cordata con lui, Walter Nones e Simon Kehrer, che visto scomparire davanti ai lo occhi il capo cordata, dopo un attimo di sbigottimento hanno continuato la loro marcia per il record o per la salvezza. Si, va bene, in montagna la legge è questa, e la sua crudezza se vogliamo, la sperimentò sulla sua pelle anche Reinhold Messner, quando sulla via del ritorno dopo aver conquistato la vetta -sempre del Nanga Parbat- perse il fratello Guenther sparito anche lui in un altro crepaccio. Orbene, per uno che muore, due -giustamente- a cui pensare. Ma il punto è proprio questo, cioè esaltarsi eccessivamente sui due superstiti senza spendere una, dico una parola su chi ha patito una morte infame e crudele, come quella appunto di Unterkircher. Morire sembra quasi un "fatto dovuto", tanto che anche dai collegamenti telefonici coi due superstiti o da quelli televisivi con Agostino da Polenza, colui che ha coordinato i soccorsi dall'Italia, la morte del terzo alpinista non trova né spazio né dolore. Discorsi fatti da chi non conosce la montagna, si dirà, e non da uomini duri che la montagna invece la vivono, la sfidano e la temono. Davanti a questa legge quindi, io -che al massimo ho "scalato" i 296 gradini della Torre di Pisa-, mi inchino umilmente, consapevole di avere capito che oltre allo show, anche "the sport must go on"... (Gericus)
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